Luciano Anceschi, Saggi di poetica e poesia (1942)

Recensione a Luciano Anceschi, Saggi di poetica e poesia (Firenze, Parenti, 1942), «Primato», a. III, n. 11, Roma, maggio 1942, p. 195.

«Saggi di poetica e poesia» di Luciano Anceschi

Di poetica si parla ormai da molte parti, anche se non sempre con la stessa precisione ed intenzione; di poetica si parla soprattutto da parte di chi vuole superare un lavoro di pura equivalenza descrittiva dell’arte e ricercare (coerentemente proprio ad uno storicismo esercitato nel concreto dell’individuo creatore e d’altronde non pauroso di incontri e di cultura) la storia del fare poetico, della struttura in cui si realizza il valore perfetto, spontaneo e pure appassionato, vitale della poesia.

Anceschi appartiene al numero di questi studiosi fin dal suo bel saggio su Autonomia ed eteronomia dell’arte (Firenze, 1936), in cui egli si impegnò, servendosi di una formulazione discutibile, a studiare la vita poetica, il confluire di intenzioni, di intuizioni mistiche e intellettuali, di teorie estetiche e di indirizzi poetici agenti dentro il pieno di opere realizzate, nella cultura letteraria europea che va dal Settecento preromantico al romanticismo e alla poesia pura. Anche in questo volume, che esce sotto l’insegna di «Letteratura» (Saggi di poetica e di poesia, Firenze, Parenti, 1942), la maggior parte dei saggi e delle note si riattacca sostanzialmente ad una ricerca di poetica, ad una prima passione intellettuale da cui ricevono la loro vera unità. Passione intellettuale che si appoggia ad una posizione teorica chiaramente spiegata già nel volume del ’36: aspirazione ad una estetica trascendentale, ad un sistema aperto, antidogmatico, lontano da ogni irrigidimento di formula, e ad una sorta di fenomenologia del bello che, sulla scorta dello studio di A. Banfi (I problemi di un’estetica filosofica, Cultura, 1932-1933), permetta un’accettazione piú aderente dell’arte nella complessità delle sue direzioni, e quasi una comprensione migliore del punto di vista degli artisti. Esigenza che ha soprattutto un valore emotivo e di stimolo a successive indagini, ma che in Anceschi trova una traduzione critica, nella sua lontananza dal saggio di natura crociana o dal pezzo di pura sensibilità. E complicandosi con la intuizione della «irrequietezza della parola» dà ai saggi di Anceschi il loro tono, tra filosofico e sensibile, di un discorso che nasce da una fitta rete di constatazioni consistenti, ma grigie, quasi volutamente monotone. Ci sembra quindi che le pagine piú interessanti del libro rimangano quelle del ricercatore delle poetiche, quelle dello studioso acuto e informato della cultura europea dal preromanticismo a noi, come i pezzi su Lion, sui saggi di Bertoni, o addirittura su Hamann e Swedenborg, sulle intuizioni poetiche di non poeti, ai margini della vera estetica e della poesia realizzata. Nei saggi piú recenti su De Robertis, su Falqui, il discorso critico ci appare piú disperso, ricco di utili osservazioni, ma irresoluto e criticamente preparatorio: troppo meticolosa aderenza piú cronachistica che storica, troppo rispetto della vita che non si deve gelare in formule ma che, seguita in tutte le sue minute vicende senza azzardare il giudizio, conduce a quel «Libro infinito» di cui parla anche Anceschi e che può essere per noi piú l’ideale di un religioso che non di un critico. Mentre, dove Anceschi discute sul tema principale del suo interesse estetico, noi proviamo sempre il piacere di una intelligenza viva e civile, di un gusto della cultura veramente notevole nel nostro clima letterario.